1. "Il pericolo è il mio mestiere"
La conclusione di G. Alvino nel suo commento ("Basare le proprie teorie linguistiche su un numero irrisoriod'esempi è pericolosissimo") a proposito del mio La 'consecutio temporum' e il neopurismo (5 gennaio) mi ha fatto subito pensare al titolo di un avvincente programma televisivo di molti anni fa dal titolo IL PERICOLO È IL MIO MESTIEREcome immediata risposta al suo intervento.
Ma soprattutto liquidare un letterato quale E. Rea, un ministro, il Papa (in quanto straniero), il purista G.L. Messina e altri colleghi, come "un'eccezione" riguardo a un particolare uso sintattico ("e io vorrei che tutti la salutiamo adesso") e come indizio di un atteggiamento scientifico "pericolosissimo", mi ha subito richiamato le parole di un autore, G.L. Pierotti, che nel 1964 scriveva:
"Il ‘purista’, ricordiàmocelo, si comporta spesso come quello zoologo il quale, imbattutosi in un animale per lui nuovo, che non rientra nelle sue classificazioni, invece di studiarlo e d’esser felice della scoperta, lo sopprime, o lo nasconde, considerandolo un animale ‘sbagliato’".
Alvino non ha il minimo dubbio di non aver incontrato nelle "migliaia" di autori da lui letti ess. con la "consecutio temporum" qui discussa. Ma mi permetto di sottoporgli altri 3 ess. letterari (per lui "eccezioni" da rottamare?):
(i) E. Vittorini1948Il garofano rosso:
"A casa non tornerò mai più. E dove vorresti che vada?" (rist. 1976 p. 191) (cit. in J. Brunet 2003, Grammaire critique de l'italien, vol. 14 Le verbe 2. Les subordonnées complétives), Vincennes, P.U. de Vincennes p. 97), "moins bien" per la Brunet p. 95, con rinvio alla grammatica di Serianni 1989 ("Si .costruisce più spesso" p. 562), da cui "il n'est pas pourtant condamné".
(ii) D.Buzzati 1963Un amore:
"Non vorrei, cara Laide, che tu abbia scambiato il mio amore per debolezza senza limiti" (rist. 1966, p. 185, cit. in Brunet 2003 ibid.).
(iii) D. Fo 1977, con l'indicativo, giudicato da nativi come "colloquiale":
"Ma non vorrei che dopo lei si offende..." (Le commedie di Dario Fo, p. 93, cit. in Brunet 2003 pp. 95, 98)
Certamente non è detto che Alvino abbia letto questi tre testi. E se li avesse letti?
2. Pervicace neopurista
Alla fine G. Alvino si riconferma ancora una volta "purista" o "neo-purista" (ribadisco per me etichetta non spregiativa ma con Migliorini descrittiva) in quanto ignora candidamente principi elementari della ricerca linguistica teorica e applicata. Mi permetterei di consigliargli di leggere o rileggere con più attenzione i maestri della linguistica otto-novecentesca.
Per es. il polacco Jan Baudouin de Courtenay,che nel 1870 poneva il seguente principio epistemologico:
"È ovvio che a tutti i fatti si riconoscono uguali diritti, e che li si possono considerare più o meno importanti, ma non se ne possono deliberatamente trascurare alcuni, ed è ridicolo lagnarsi dei fatti. Tutto ciò che esiste è razionale, naturale e legittimo: ecco il motto di tutte le scienze".
Nel testo di un autore citatissimo, ma forse ora poco o non più letto, come Ferdinand de Saussure 1916, si puntualizza:
"la materia della linguistica è costituita anzitutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche, o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della ‘buona lingua’, ma delle espressioni d’ogni forma".
In un testo meno noto lo stesso Saussure (1891) osservava: "il ne faut rien dire; tout ce qu’on dit a sa raison d’être".
Ancora il citato J. Baudouin de Courtenay nel 1907 avvertiva:
"any instruction in a language, whether this language be ‘native’ or ‘foreign’, is an offense against the ‘natural development of language’. When we correct ‘mistakes’ and ‘slips of the pen’, we sin against the principle of naturalness. All linguistic purism, all persecution of linguistic ‘alien’, […] are artificial devices restricting the natural course of things".
E un altro ben noto linguista americano, Leonard Bloomfield, nel 1942 sottolineava:
"Remember always that a language is what the speakers do and not what someone thinks they ought to do".
Un linguista quale André Martinet 1963 in Le français sans fard così si esprimeva:
"Je n’entrevois qu’un remède contre l’activité pernicieuse de prétendus défenseurs de la langue: apprendre aux français qu’on peut, en la matière, avoir une autre attitude que celle, strictement normative, qui est la seule qu’on leur ait enseignée. Il faut les convaincre que leur langue est à leur service et qu’ils en tireront le plus d’avantages, non s’ils s’inclinent devant de faux oracles, mais s’ils utilisent hardiment toutes ses ressources".
Non ho certo bisogno di ricordare ad Alvino quanto Giovanni Nencioniscriveva nel 1990:
"L’importante non è che la nostra lingua risponda a regole interne di coerenza logica, ma che esprima e comunichi senza ambiguità e con efficacia il nostro pensiero e il nostro stato d’animo".
E concludo con la dichiarazione più informale sulla creatività della lingua e dei parlanti, quale è quella indicata da un non-linguista, il critico cinematografico Roberto Escobar, nel "Sole 24 Ore" il 13 luglio 1987:
"La lingua è un po’ come una bella donna: finché resta pura non genera nulla. E rischia di diventare una vecchia zitella. Una lingua viva è necessariamente impura, abituata com’è a frequentare trivi e quadrivi, giornali e televisioni, cinema e caserme" (Rapallizzata, brancaleonesca eppur ben viva).