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Treccani e DOP: diversità di vedute

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Il  "su", in funzione avverbiale, si può anche accentare e non è assolutamente un errore, al contrario di quanto si legge nel sito della Treccani in "La grammatica italiana". «La grafia con accento, anche se abbastanza diffusa, è scorretta e ingiustificata, perché non c’è possibilità di confusione con omografi [...]». Il DOP, invece, è di parere diverso e chi scrive segue le sue indicazioni. Si veda qui.
 Occorre distinguere, infatti, il su preposizione dal  avverbio. Tra i due su c’è una notevolissima diversità di intonazione, di “suono” e, quindi, di... accento.
Il su preposizione è, in generale, atono: raccogli i panni su uno stenditoio; guarda su quella cima. Il su con valore avverbiale è, invece, fortemente tonico: guarda sù, verso la cima; non andare sù.
Il  avverbiale, per tanto, si può accentare per mettere in evidenza la sua "sonorità" e nessuno, docenti di lingua compresi, potrà dire che è uno strafalcione perché la linguistica lascia ampia libertà di scelta a colui che scrive.



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Da un quotidiano in rete:

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Non siamo tra le nazioni piú vecchie del mondo, ma tra le nazioni del mondo con piú vecchi  (la differenza di significato è evidente).



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La nostra casella di posta elettronica è sempre piú  "intasata" dai messaggi dei nostri gentili lettori che domandano dove possono reperire il nostro libro "Un tesoro di lingua". Il volume, lo abbiamo scritto altre volte, non è in vendita (è fruibile gratuitamente collegandosi a www.nuovedirezioni.it). Il cartaceo si può richiedere, comunque, all'editore: Associazione Nazionale Cittadino e Viaggiatore  50125 FIRENZE via San Niccolò, 21
telefoni : 055 2469343 / 328 8169174
email : 
info@nuovedirezioni.it
telefax : 055 2346925




Divisa "da" o divisa "di"?

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Questo titolo di un quotidiano in rete contiene un errore che grida vendetta: in divisa DA Ss. La preposizione corretta, da usare, è "di": divisa DI Ss. Si tratta di un normalissimo complemento di specificazione. La preposizione "di" specifica, infatti, di quale divisa si tratta. Diamo la "parola" al Treccani:«[...] Abito di foggia e colore particolare che viene indossato dagli appartenenti a una determinata categoria, perché siano facilmente distinguibili e riconoscibili; livrea, uniforme. Oggi, il termine designa più comunem. l’uniforme militare o di corpi militarizzati, di forze di polizia, e sim.: indossare la d., presentarsi in d.; onorare la propria d.; d. di ufficiale di fanteria; d. di aviere; la d. dei marinai, dei bersaglieri; d. di vigileurbano, di vigile del fuoco, di guardia giurata, ecc.; più raramente, l’uniforme di altre organizzazioni, di una società, di un corpo, ecc.: d. di accademico, di collegiale, di portiere[...]».


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Un'altra perla dello stesso quotidiano:
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La grafia corretta è "il 1 gennaio". Questa volta diamo la "parola" all'Accademia della Crusca:«[...] Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870»". Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l'(seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."».



Sgroi - «Avrebbe [o: sarebbe] dovuto essere»? Quale è (o qual'è?) la forma corretta?

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di Salvatore Claudio Sgroi*


1. Il dubbio
Un anonimo lettore (dichiaratosi poi di Alessandria), ‒ a proposito del mio intervento di domenica 24 dicembre 2017 "Occhio alla grammatica profonda del ministro!" contenente la frase "La forma corretta avrebbe quindi dovuto essere (...)", ‒ si è chiesto:
«Non si dice "sarebbe dovuta essere"»?

1.1. Risposta salomonica
Dubbi del genere piuttosto che determinare angosce linguistiche ‒ chi ha torto e chi ha ragione? ‒ si risolvono invero, salomonicamente, riconoscendo, in termini normativi, la legittimità delle due alternative, con la possibilità che possa esserci una qualche differenza semantica.

2. Le Regole (inconsce)
Il problema è allora quello di individuare le due Regole della grammatica inconscia, profonda, del parlante alla base delle due soluzioni. E magari ricostruire pazientemente la storia delle due Norme esplicite nella grammaticografia, cioè nella storia della grammatica italiana (a partire dal '400...).
Ora la Regola-1 alla base della frase 1. "avrebbe Dovuto essere..."si basa sulla scelta dell'ausiliare avere del verbo servile (o modale) Dovere (cfr. ho Dovuto) rispetto all'ausiliare (essere) del verbo retto essere (cfr. sono stato). Con tale scelta il costrutto 1. si presenta come bi-frasale con rilievo enfatico ("peso comunicativo" o "maggior risalto") del verbo servile Dovere. Invece l'alternativa 2. "sarebbe dovuto Essere..."si configura come costrutto monofrasale con la preferenza dell'ausiliare (essere) del verbo (Essere), messo così in primo piano.
(En passant, confesso che sono stato incerto tra i due costrutti, optando alla fine per 1. "avrebbe Dovuto essere" semanticamente più adatto al tema).
Esempi analoghi sono quelli con altri verbi servili quali potere e volere, ad es. 3.a. (bi-frasale) non ho Potuto uscireversus 3.b. (mono-frasale) non son potuto Uscire; 4.a. non ho Voluto uscire versus 4.b. non son voluto Uscire.

3. Le Norme delle grammatiche (scritte)
Ora, la conferma di queste due Regole nelle grammatiche normative non è invero pacifica. Ma come osservava un grande linguista, Eugenio Coseriu (1967), "Complicata è la cosiddetta grammatica dei grammatici, non la grammatica dei parlanti".

3.1. La norma logicistica del Panzini 1932
Una grammatica d'antan, ma di piacevolissima lettura, come quella di Panzini 1932 (ried. da L. Sciascia per Sellerio 1982) proponeva la norma-1 logicistica (che sembra quella seguita dal nostro Anonimo lettore di Alessandria) per cui l'ausiliare in tali costrutti dev'essere quello del verbo non-servile. Si chiedeva Panzini: "Dirò: [a] Lucia non ha mai voluto venire, oppure [b] non è mai voluta venire?". Risposta: "Dirò [b] non è mai voluta venire, appunto perchè venireè intransitivo, ed è aiutato dal verbo èsserenella sua coniugazione" (p. 67).

3.2. Le Norme 'semi-liquide' dei puristi (Gabrielli 1969, Satta 19681, 19742, Messina 1957)
Dinanzi però a usi comuni di [a], avallati anche da scrittori come Manzoni ("ha dovuto partir di nascosto"; "ho voluto venir anch'io", un purista quale A. Gabrielli 1969 in Si dice o non si dice? (Mondadori), pur preferendo ("raccomandabile") la norma-1 logicistica, ha dovuto riconoscere la correttezza di frasi come [b], "che sottolineano il concetto di dovere, di possibilità, di volontà espresso dal verbo, senza badare all'infinito che segue" (p. 238).
Nell'edizione postuma 1981 del Gabrielli [1898-1978] si dichiarava coerentemente la preferenza per "Son voluto essere presente anch'io" rispetto a "Ho voluto essere presente anch'io" (pp. 212-13).
E sulla stessa falsariga si collocano altri puristi come L. Satta (19681, 19742) in Come si dice che cita descrittivamente ess. come ha dovuto intervenire la polizia, ecc.) in vari scrittori (Moravia, Tozzi, Bilenchi, Pratolini, Santucci, Pasolini, Bernari, Comisso). E poi nella sua grammatica La prima scienza (Le Monnier1989, pp. 224-35). E ancor prima il purista G. Messina1957Parole al vaglio p. 374 (= Dizionario dei neologismi 1983 p. 688).

3.3. Le due Norme: logicistica (P. Bembo 1525) e 'liquida' (L. Castelvetro 1563)
Come è stato evidenziato da S. Telve (2007), la norma puristica, logicistica, risale alle Prose della volgar lingua (1525) di P. Bembo che non ammetteva frasi quali se io havessi voluto andare dietro a' sogni. Ma tale norma fu contestata da L. Castelvetro (1563), per il quale invece "si possono indifferentemente usare [...] ho potutoo voluto venire, son potuto o voluto venire". E poi nel '700 Fr. Soave (1771) "sarà ben detto egualmente non ho potuto, e non son potuto andare", ecc.

3.4 . La norma 'liquida' nel '900 (Serianni 1988)
Le grammatiche dell''800 e del '900 hanno per lo più seguito la posizione del Castelvetro, riconoscendo la correttezza normativa dei due costrutti. Così La grammatica italiana del Battaglia 1951 (Chiantore, p. 283), quella di Fogarasi 19691, 19832(p. 262), di C. Schwarze tr. it. 2009(Carocci p. 155) o la Grammatica italiana di L. Serianni (1988, ried. 1990). Non invece l'attardato B. Severgnini (2007) L'italiano.Lezioni semiserie (Rizzoli, p. 176).

3.4.1. Norma 'contraddittoria' dei grammatici
Ma la grammatica dei grammatici, si diceva, è spesso più complicata del necessario. E non risulta chiara la logica dei grammatici che introducono, con qualche contraddizione interna, una ulteriore Norma proprio per il tipo di frase da cui abbiamo preso le mosse. Pur riconoscendo la legittimità dei due tipi di ausiliare (sono/ho dovuto uscire), Serianni (1988) nella sua Grammatica ha scritto: "Se l'infinito è essere, l'ausiliare del verbo reggente è avere (avrebbe dovuto essere a casa)" (p. 504 e § XI. 38). Ma non è forse 'normale' dire anche Sarei dovuto essere a casa?
E così in altre grammatiche: Dardano-Trifone 19973, Nuova grammatica della lingua italiana (Zanichelli 1997, p. 300), Trifone-Palermo 20043, Grammatica italiana di base (Zanichelli, p. 171), M. Maiden-C. Robustelli20072, A reference grammar of Modern Italian (Hodder, p. 270), Della Valle-Patota 1995, il Salvalingua: "la questione [...] avrebbe potuto essere più complicata(e non sarebbe potuta essere più complicata!)" (p. 66), ecc..
A questo punto, la frase dell'anonimo lettore, da cui si sono prese le mosse, sarebbe errata, e corretta solo quella mia. Ma io sostengo che sono entrambe corrette, con una diversa enfasi semantica.


4. Conclusione
I lettori consultino dunque tutte le grammatiche possibili, ma criticamente, mettendo sempre a confronto le norme lì indicate con gli usi e le regole dei parlanti, a cominciare da quelli propri.


P.S. A proposito della norma contraddittoria, si può ancora aggiungere che non mancano ess. illustri, letterari e giuridici, riportati dal neo-purista L. Spagnolo (Errata-Corrige - Il tipo *sarebbe dovuto essere) nel sito "Treccani-Lingua Italiana", ma sanzionati negativamente:
(i) «In un’alcova la cosa non sarebbe potuta essere più chiara» (Italo Svevo 1898, Senilità, cap. 6).
(ii)«In quel momento sarebbe voluto essere da un’altra parte» (Federico Moccia, L’uomo che non voleva amare, Milano, Rizzoli, 2011, p. 165);
(iii) «sarebbe dovuto essere in casa» (Andrea Vitali, Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti, ed. digitale, 2014, cap. 21).
(iv)«la base del calcolo sarebbe dovuta essere di 9 ettari che, per le stesse ragioni di cui sopra, erano legittimamente detenuti dal convenuto» (sentenza della sezione siciliana della Corte dei conti (102/2017, In fatto),
(v) «Chiarificatrice sarebbe dovuta essere l’ulteriore nota del MIUR del 6 settembre 2013 n. 1204» (ordine del giorno G15.101 al ddl 1150 [Bocchino, Serra, Montevecchi, Bignami], sito del Senato).



* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania.
Tra i suoi ultimi libri Il linguaggio di papa Francesco(Libreria editrice Vaticana 2016), Maestri della linguistica otto-novecentesca (Edizioni dell’Orso 2017),  Maestri della linguistica italiana (Edizioni dell’Orso 2017).

Le cartEstraccE e le cartapecorE

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Gentilissimo dott. Raso,
nell'augurarle un felicissimo 2018 e nel ringraziarla per le sue preziose noterelle - che hanno permesso a mio figlio di apprendere alcuni "segreti" della lingua italiana (per usare le sue parole) - mi permetto porle un quesito al quale i vocabolari consultati non hanno dato risposta. Perché "cartastraccia" nella forma plurale fa "cartestracce", cambia, cioè la desinenza di entrambi i nomi e "cartapecora" fa, invece, "cartapecore" cambiando la terminazione solo del secondo sostantivo? Entrambi i nomi non sono composti con "carta"? La ringrazio in anticipo e resto in attesa di una sua cortese risposta.
Erminio P.
Savona

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Cortese Erminio, la ringrazio e ricambio gli auguri. Quanto al suo quesito la risposta va ricercata nella norma che regola la formazione del plurale dei nomi composti. Se il nome composto è formato da un sostantivo e da un aggettivo nel plurale cambia la desinenza di entrambi i componenti. Da cassaforte, infatti, abbiamo "casseforti" (cassa, sostantivo e forte, aggettivo); da cartastraccia, "cartestracce" (carta, sostantivo e straccio, aggettivo). Se, invece, il nome composto è costituito di due sostantivi dello stesso genere (tutti e due maschili o tutti e due femminili) nella forma plurale muta la desinenza solo il secondo sostantivo  (carta, sostantivo femminile; pecora sostantivo femminile). In base a questa norma abbiamo, quindi, la cartapecora, le cartapecore; la cartacarbone, le cartecarbone (essendo il secondo elemento  di genere diverso  cambia il primo sostantivo).

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La parola proposta da questo portale: zopissa. Sostantivo femminile con il quale si indica un medicamento empirico per la cura delle piaghe.

L'alomanzia

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La parola che proponiamo ai nostri cortesi lettori è: alomanzia,  sostantivo femminile, non attestato nei vocabolari dell'uso. Con questo sostantivo si indicava - un tempo - l'arte di divinare il futuro "analizzando" il sale.

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 Comparire - si adopera la forma incoativa in "sco" (comparisco) quando significa "far bella figura": questo vestito comparisce bene. Lo stesso discorso vale per il verbo scomparire (far brutta figura): scompariscisempre davanti agli altri.



Cotto e cociuto –  entrambi i termini sono participi passati del verbo cuocere. Il primo si adopera in senso proprio: il risotto è cotto; il secondo si usa in senso figurato con l’accezione di indispettito e simili: la tua osservazione mi è cociuta (mi ha indispettito).



Cric o cricco – così si chiama e si scrive - in buona lingua italiana -  il martinetto per sollevare un’autovettura. Non crick.

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Un interessante dibattito - scaturito in Francia - sul sessismo linguistico.

Sul plurale dei nomi composti

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A proposito della formazione del plurale dei nomi composti, abbiamo rilevato "un'imprecisione"  in questo sito, imprecisione  che può indurre in... errore gli sprovveduti in fatto di lingua:«[...]i nomi formati da un verbo + un sostantivo maschile singolare formano il plurale cambiando la desinenza finale
Es: portalettera ------portalettere [..]».
La "regola"è esatta, ma non l'esempio perché "portalettere"è già plurale, non cambia, quindi, nella forma plurale: il portalettere, i portalettere. La lettera, inoltre, fino a prova contraria, non è un sostantivo singolare maschile.

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Due parole due sull'avverbio "invece".  Si può scrivere in grafia analitica (in vece) o univerbata  (invece).  Adopereremo la grafia analitica quando sta per  "in cambio di", "al posto di ":  ti regalo un bel libro in vece di un giocattolo inutile. La forma univerbata allorché vale "al contrario", "all'opposto":  sembrava tanto affabile invece si è rivelato un orso. Spesso il suddetto avverbio si fa precedere dalle congiunzioni avversative "mentre" e "ma": mi hai detto che saresti rimasto tutto il giorno in casa, mentre invece sei uscito. È un uso, questo, improprio (se non errato) e in buona lingua italiana è da evitare.

Febbre influenzale

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Gentile dott. Raso,

in questi giorni non si fa altro che parlare di febbre dovuta all'influenza. Mi piacerebbe conoscere l'origine, linguistica naturalmente, di questa febbre. La ringrazio in anticipo se avrà  la bontà di soddisfare la mia richiesta. Con viva cordialità e auguri per il nuovo anno.

Giovanni S.

Sassari

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Cortese Giovanni, l'accontento di buon grado e ricambio gli auguri. È il latino febre(m). Per maggiori dettagli la rimando al dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani, anche se molti linguisti non lo ritengono fededegno. Aggiungo che i nostri antenati Latini ritenevano responsabile della febbre una dea, chiamata, per l'appunto, Febris. A lei avevano dedicato tre templi; in uno di questi, situato sul colle Palatino, i devoti, per scongiurare i suoi strali febbrili lasciavano offerte votive che erano, per lo piú, rimedi e farmachi/ci vari contro la... febbre.  

Per quanto attiene all'influenza,la rimando a questo mio intervento.



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La parola proposta da questo portale: alofanta. Che cosa è? Scopriteloqui.

Sgroi - Politica linguistica suicida... del ministro della P.I.

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  di Salvatore Claudio Sgroi*

1. Provocazione del MIUR: bando PRIN (in italiano) con domande da redarre (o redigere?) però "in lingua inglese"

Il 27 dicembre 2017 il MIUR (leggi "Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca"), con a capo il ministro (o la ministra?) Valeria Fedeli, ha pubblicato il bando per il nuovo Prin (leggi "Progetti di Rilevante Interesse Nazionale" per la ricerca universitaria).

Il cui art. 4 comma 2 così recita:"La domanda è [leggi: va] redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana."

La frase eufemisticamente all'indicativo in realtà con valore imperativo è sinceramente preoccupante. Che il ministro imponga l'uso di una lingua straniera (estranea cioè agl'italiani, non-nativa) in casa propria, scavalcando la lingua nazionale e ufficiale (cfr. art. 9 della Costituzione), lascia decisamente senza parole.

2. Morte di una lingua annunciata?

La morte di una lingua non è determinata dal suo uso e dalla sua trasformazione al contatto con altri idiomi con accoglienza, secondo i propri bisogni e gusti, di voci straniere adattate o meno, ma dalla sua rinuncia ad essere usata nelle diverse situazioni comunicative, soprattutto poi se si tratta di contesti culturalmente alti, per essere sostituita con un'altra.

Il processo che si innesca con atti del genere -- sostituendo alla lingua nazionale l'anglo-americano --- è quello della riduzione degli ambiti d'uso scientifici dell'italiano. Si tratta di una forma di "diglossia", di bilinguismo di serie B, per l'italiano confinato agli usi Bassi, rispetto all'inglese riservato agli usi Alti, in attesa magari di un totale spiazzamento dell'italiano in tutti i contesti.

3. Ferdinand de Saussure (1891) aveva già previsto le condizioni di morte di una lingua

Il processo in atto ricorda insomma quello già indicato dal Saussure autore della "Première Conférence" all'Università di Ginevra nel novembre 1891:

"Una lingua non può morire di morte naturale. Non può morire che di morte violenta. Il solo modo che abbia di cessare, è di vedersi soppressa per forza, per una causa del tutto esterna ai fatti di linguaggio.

Cioè ad esempio per lo sterminio totale del popolo che la parla, come succederà prossimamente per gli idiomi dei Pellerossa dell'America del Nord.

Oppure per imposizione  di un nuovo idioma appartenente a una razza più forte; generalmente ci vuole non soltanto una dominazione politica, ma anche una superiorità di civilizzazione, e spesso ci vuole la presenza di una lingua scritta che viene impostadalla Scuola, dalla Chiesa, dall'amministrazione... e attraverso tutti i canali della vita pubblica e privata. È un caso che si è ripetuto cento volte nella storia [...] Ma queste non sono cause linguistiche.

Non accade mai che una lingua muoia di consunzione interna, dopo aver portato a termine la carriera che le era destinata. In se stessa è immortale, cioè non vi è alcuna ragione per cui la sua trasmissione si arresti per una qualche causa relativa all'organizzazione di quella lingua stessa".

4. Ravvedimento in vista

Ma abbiamo motivo di ritenere che al ministero, grazie anche al consiglio di saggi glottologi, verrà apportato l'utile correttivo nel bando per un uso naturalmente obbligatorio della lingua nazionale, affiancato caso mai facoltativamente da quello della lingua inglese.

L'italiano per realizzare le sue potenzialità linguistico-culturali non può rinunciare ad essere usato, in casa propria, cedendo a idiomi di comunità più forti, se non prepotenti, come l'anglo-americano, se non vuol rischiare di scomparire.

P.S.  Naturalmente si potenzi l'apprendimento dell'inglese -- lingua veicolare, internazionale e idioma di uno Stato, culturalmente, economicamente ecc. avanzato come gli USA -- a scuola, all'università, con corsi anche in TV o alla radio (come nei decenni del secolo scorso).


* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania

Tra i suoi ultimi libri Il linguaggio di papa Francesco (Libreria editrice Vaticana 2016), Maestri della linguistica otto-novecentesca (Edizioni dell’Orso 2017),  Maestri della linguistica italiana (Edizioni dell’Orso 2017).

Sgroi - La guerra dell’inglese. Ovvero, quando la tecnica sopravanza la Politica

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Il Prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell'Ateneo di Catania, risponde alla lettera della ministra Valeria Fedeli, a capo del MIUR.

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La lettera della Fedeli

Un "ripasso" sintattico-grammaticale

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“Su qui e su qua...”. Tutti ricorderanno la canzoncina scolastica: su qui e su qua l’accento non va, su lí e su là l’accento ci va. Pochi, crediamo, ricorderanno la ragione. Ci permettiamo di rinfrescare loro la memoria, anche perché ci capita sovente di leggere sulla stampa gli avverbi di luogo “qui” e “qua” con tanto di accento. Una regola grammaticale stabilisce, dunque, che i monosillabi composti con una vocale e una consonante non vanno mai accentati, salvo nei casi in cui si può creare “confusione” con altri monosillabi ma di significato diverso come nel caso, appunto degli avverbi di luogo “ lí ” e “là” che, se non accentati, potrebbero confondersi con “li” e “la”, pronomi-articoli. Un’altra legge grammaticale stabilisce, invece, l’obbligatorietà dell’accento quando nel monosillabo sono presenti due vocali di cui la seconda tonica: piú; giú; ciò; già ecc. Dovremmo scrivere, quindi, quí e quà (con tanto di accento). A questo proposito occorre osservare, però, che la vocale “u” quando è preceduta dalla consonante “q” fa da “serva” a quest’ultima; in altre parole la “u”, in questo caso, non è piú considerata una vocale ma parte integrante della consonante “q”. Si ha, per tanto, qui e qua senza accento perché – per la “legge” sopra citata – i monosillabi formati con una consonante e una vocale “respingono” l’accento grafico (scritto): me; te; no; lo; qui; qua.

 Irridere - verbo transitivo e intransitivo. È transitivo quando sta per deridere, schernire e si costruisce con il complemento oggetto: lo irrisero tutti; è intransitivo, invece, quando si usa con il significato di mostrare disprezzo e simili: irrisero alla sua bontà.

Meteorite – sostantivo di genere femminile. Alcuni vocabolari, però, ne consentono l’uso al maschile (uso che sconsigliamo recisamente, se si vuole scrivere e parlare in buona lingua italiana).

Quasiché - locuzione che introduce una proposizione modale, si  può scrivere anche in due parole,  quasi che; in grafia unita non raddoppia la c e prende l'accento sulla e.

Suonare osonare – adoperato intransitivamente si coniuga con l’ausiliare avere: le campane hanno sonato, non sono suonate.

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La parola proposta da questo portale: apoplanesi. Figura retorica - non riportata nei "sacri testi" - con la quale chi parla cerca di indurre in errore gli astanti.


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Tutti i giornali che abbiamo "spulciato" hanno scritto, a proposito delle parole del presidente americano, "Paesi cessi". A nostro modo di vedere siamo in presenza di un nome accoppiato, tipo "romanzo fiume", "guerra lampo", "nave traghetto" ecc. E i nomi cosí composti formano il plurale mutando la desinenza solo del primo elemento: "romanzi fiume", guerre lampo", "navi traghetto". Da "Paese cesso" abbiamo, quindi, "Paesi cesso", vale a dire "Paesi (che sono un) cesso". Alcuni tra i due sostantivi inseriscono un trattino.


Un sostantivo "ermafrodito"

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Cosí titolava un quotidiano in rete, "mascolinizzando" il sostantivo allerta.  Sul "sesso" di questo sostantivo i vocabolari si accapigliano: per alcuni è femminile, per altri maschile e per altri ancora è un 'ermafrodito' (maschile/femminile). Chi ha ragione? A nostro avviso è solo femminile, e ci rifacciamo alla sua origine: il sostantivo femminile "erta", che significa "salita ripida" (si veda Ottorino Pianigiani, anche se - come scritto altre volte - da molti linguisti non è ritenuto fededegno), confortati dall'autorevole Accademia della Crusca, che scrive: «[...]Per tirare le fila ricordiamo dunque che, per quanto riguarda il “come si scrive”, i dizionari consentono entrambe le grafie (all’erta o allerta), anche se dobbiamo riconoscere una preferenza per la forma univerbata, soprattutto quando si usa il termine in funzione di sostantivo. Il nome allerta è femminile (sebbene si registri anche un più raro uso al maschile) e al plurale si declina (sebbene, anche qui, permanga qualche caso d’invariabilità).[...]».


Una contraddizione "treccaniana"

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Abbiamo notato una "diversità di vedute" tra il vocabolario Treccani (in rete) e "La grammatica italiana", dello stesso vocabolario, circa il plurale del sostantivo "urlo". La "grammatica" non ammette il plurale maschile urli riferiti all'uomo, anche se considerati singolarmente. Il vocabolario, invece, è di parere opposto. Come regolarsi in merito? Diremo: gli urli di Giovanni (urla solo Giovanni, singolarmente) e le urla di Maria,  di Giovanni e di Rolando (urlano insieme, collettivamente).

"La grammatica italiana" (Treccani)

• Il plurale femminile urla si usa quando ci si riferisce a suoni emessi da esseri umani. Sapessi  che urla terribili sa lanciare mio fratello. • Il plurale maschile urli si usa per indicare i versi degli animali: quando il mondo sembrava rotolare nel buio e sotto di me sentivo l’inferno sgranchirsi negli urli delle fiere (E. Flaiano, Tempo di uccidere), ma può essere usato anche per indicare parole o frasi pronunciate a voce alta, con violenza o con rabbia: in quei versi divini risuonano gli urli della folla e gli applausi trionfali (C. Malaparte, La pelle).

Vocabolario in rete

urlo s. m. [der. di urlare] (pl. gli urli, degli animali o anche dell’uomo, se isolati o comunque non considerati nel loro complesso; le urla, solo dell’uomo). – Grido acuto e prolungato: l’u. del lupo, del cane, dello sciacallourli di belva feritamandare, emettere, dare, fare un u.; con partic. riferimento all’uomo: un u. di gioia, di entusiasmo, di dolore, di spaventocacciare, gettare un u. (soprattutto di spavento); urla di protestaal suo apparire sul podio fu accolto dall’u. della folla che gremiva la piazzagli urli dei cantanti, dei divi della canzone (v. urlatore). Per estens., al plur., discorso o serie di frasi, di parole, pronunciati a voce molto alta: con le sue urla mi ha assordatosentirai i suoi urli quando torna e si accorge del dannoquelli che non potevano aiutare,facevan coraggio con gli urli (Manzoni). In usi fig., suono molto forte e acuto, che somiglia a un urlo: l’u. della sirena, l’u. del vento, l’u. del mare in tempesta. Con altro uso fig., nell’espressione del gergo giovanile da u., di cosa o persona che colpisce vivamente per alcune sue doti o qualità (con sign. simile a forzaschianto): indossava un abito da urlo.  Dim. urlétto; accr., raro, urlóne; pegg. urlàccio, urlo d’ira o d’indignazione, di rimprovero.

Vediamo, anche, cosa dice il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia:





Sgroi - La fede solo in «dialetto»? (Papa Francesco dialettofilo linguista-semiologo)

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di Salvatore Claudio Sgroi*

1. Ipse dixit. Così parlò il Sommo Locutore

«La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna» ‒ sono le parole dette da Papa Francesco (così nel testo riportato da R.it Vaticano on line e in altre testate) in occasione della messa per la festa del battesimo di Gesù, domenica 7 gennaio, in cui ha battezzato nella Cappella Sistina 34 neonati.

Il Sommo locutore ha quindi ribadito:

«Ma non dimenticatevi questo: [la trasmissione della fede] si fa in dialetto, e se manca il dialetto, se a casa non si parla fra i genitori quella lingua dell'amore, la trasmissione non è tanto facile, non si potrà fare».

La prima perplessità che possono invero far sorgere tali frasi è che la trasmissione della fede non possa aver luogo con gli italofoni nativi esclusivamente tali, in quanto non-dialettofoni. Ovvero sembrerebbe che il Papa sopravvaluti il "Dialetto" rispetto alla "lingua", come se la stessa trasmissione della fede non potesse aver luogo in "lingua". Il che sarebbe paradossale.

2. Dialetto «lingua intima», «lingua dell'amore»

Ora, nella formulazione del Sommo locutore il termine «Lingua» appare adoperato accanto a «dialetto» come termine più generale, "iperonimo" di dialetto («dialetto, la lingua intima delle coppie»; «il dialetto [...] lingua dell'amore»). Ovvero, per papa Francesco, la «Lingua» si presenta come idioma caratterizzato da più varietà: (i) quella «intima» ovvero 'privata' detta «dialetto», e (ii) per contrasto implicitamente quella "non-intima", 'non-privata', ossia 'pubblica', ufficiale, che è quella «dei catechisti», evocati in una ulteriore enunciazione:

«Poi verranno i catechisti a sviluppare questa prima trasmissione, con idee, con le spiegazioni»[della lingua pubblica, non intima].

3. Dialetti primari e dialetti secondari

In che senso, a questo punto, i parlanti italiano ma non dialetto, ovvero gli italofoni che non sono dialettofoni, non sono esclusi dalla trasmissione della fede?

Il «dialetto della famiglia», «il dialetto di papà e mamma», «il dialetto di nonno e nonna» in quanto «lingua intima», riguardano tecnicamente, per dirla con Eugenio Coseriu, i "dialetti primari" parlati in Italia (per es. piemontese, emiliano, napoletano, siciliano, ecc.). I parlanti "non-dialettofoni primari" in quanto italofoni esclusivi sono però a loro volta "dialettofoni secondari", in quanto l'italiano lingua nazionale si configura come insieme di varietà di italiani regionali, definibili con Coseriu come "dialetti secondari". E gli italiani regionali presentano registri differenziati, da quelli più familiari a quelli più formali, tra cui scegliere secondo gli interlocutori, i contesti, l'oggetto della interazione.

Ecco dunque come tutti i parlanti rientrano, in quanto tutti dialettofoni primari e secondari, -- comunemente bilingui (lingua/dialetto) o anche esclusivamente monolingui, -- nella categoria indicata da Bergoglio come "parlanti in dialetto" (primario e secondario).

4. Il «dialetto» (primario o secondario) in quanto lingua nativa (non seconda)

Per Bergoglio il «dialetto» è allora essenziale in quanto idioma nativo, acquisito (più che "appreso") per primo nell'interazione naturale in famiglia prima, e poi con i pari, per tutti i bisogni espressivi, interattivi, cognitivi. E l'idioma nativo può essere o un dialetto "primario" oppure il dialetto "secondario" (la lingua nazionale in una qualsiasi varietà regionale, appresa in famiglia, con i pari e a scuola).

5. Il pianto «un dialetto», «una lingua»

Ma l'intervento di Papa Francesco è rilevante anche a un livello teorico, più generale, quello semiologico, perché "il pianto" dei battezzandi, in quanto linguaggio non-verbale, espressivo-comunicativo con riferimento a richieste, bisogni diversi, è definito un vero e proprio «dialetto» e «lingua»:

«Adesso tutti [i bambini] stanno zitti ma è sufficiente che uno dia il tono, e poi l'orchestra segue. Il dialettodei bambini, e Gesù ci consiglia di essere come loro, di parlare come loro».

«Noi non dobbiamo dimenticare questa lingua dei bambini, questa lingua, parlano come possono, ma è la linguache piace tanto a Gesù».

«Anche loro [i bambini] hanno il proprio dialetto, che ci fa bene sentirlo».

6. Il pianto?: «un'orchestra», «un concerto»

Se il pianto dei bambini è per lo più percepito come un "rumore", papa Francesco non solo lo rivaluta semiologicamente, come lingua-dialetto, ma giudica i pianti dei battezzandi «un'orchestra», ovvero «un concerto».

«Adesso tutti stanno zitti ma è sufficiente che uno dia il tono, e poi l'orchestra segue», aveva detto.

«E se loro [i battezzandi] incominciano a fare il concertoè perché non sono comodi, o hanno troppo caldo, o non si sentono a loro agio, o hanno fame».

Così facendo, papa Francesco si mostra in straordinaria sintonia con i teorici del linguaggio per i quali il linguaggio verbale presenta "la melodia" rispetto alla musica, che è invece caratterizzata dalla "armonia", risultante dall'accordo di più voci, da una "sinfonia" come in una «orchestra», in un «concerto» (cfr. per es. A. Moro, Le lingue impossibili, Cortina ed. 2017, pp. 79-80).

7. Il pianto delle madri

Accanto al dialetto, anche le madri non mancheranno di far ricorso alla stessa lingua dei neonati, il pianto. «[Il pianto] è la lingua dei bambini, parlano come possono ma è la lingua che piace tanto a Gesù», sottolinea Bergoglio. «E nelle vostre preghiere siate semplici come loro, dite come loro anche con il pianto»; «dite a Gesù quello che è nel vostro cuore, come dicono loro oggi, lo diranno col pianto, come i bambini».

8. L'allattamento «un linguaggio di amore»

Papa Francesco invita ancora le mamme ad allattarli pure, i bambini, in chiesa. L'allattamento è così semiologicamente interpretato come «linguaggio di amore»:

«Se [i bambini] hanno fame, allattateli, senza paura, dategli da mangiare, perché anche questo è un linguaggio di amore».

9. Modello linguistico-semiologico del Sommo locutore

Concludiamo, riprendendo termini e concetti di Papa Francesco ordinati in un modello teorico linguistico-semiologico che ne evidenzia la logicità e coerenza:













                                                                                                             

                                                                                 

          



                                                                                                             

                                                                                                                                           




«Fare a capelli»

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Un' interessante disquisizione sull'espressione fare a capelli.

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La parola proposta da questo portale:  squarquoio. Aggettivo di carattere regionale toscano che sta per cadente, decrepito, vecchio, rimbambito e simili. Di etimologia incerta, secondo i vocabolari consultati. Di diverso avviso il Pianigiani anche se - come abbiamo sempre scritto - non ritenuto fededegno da molti linguisti.

«Violenti» raffiche di vento

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Ci dispiace veramente lanciare strali sugli organi d'informazione. Ma come facciamo a sottacere davanti a uno strafalcione che fa bella mostra di sé nel titolo che avete appena letto? Quale strafalcione? "Violenti raffiche". Sí, violenti in luogo della forma corretta violente. Forse i titolisti del giornale in rete non "ricordano" le classi - tre -  in cui si dividono gli aggettivi. Facciamo - succintamente - un piccolo ripasso. Perché, dunque, "violente"? Perché è un aggettivo  della prima classe (come buono). Questi aggettivi hanno la desinenza  "-o", per il maschile singolare; "-a" per il femminile singolare; "-i" per il maschile plurale ed "-e" per il femminile plurale: buono, buona, buoni, buone. Quindi: violento, violenta, violenti, violente. Appartengono alla seconda classe gli aggettivi che hanno un'unica desinenza tanto per il maschile e femminile singolare quanto per il maschile e femminile plurale, e sono  "-e" e "-i": facile (maschile e femminile singolare), facili (maschile e femminile plurale). Fanno parte della terza classe, infine, gli aggettivi che hanno la desinenza "-a" per il maschile e femminile singolare e "-i" ed  "-e" rispettivamente per il maschile plurale e per il femminile plurale: entusiasta (maschile e femminile singolare); entusiasti (maschile plurale); entusiaste(femminile plurale).

* Nella pagina interna il titolo è diverso.

Posto «da» o poto «di»?

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parma



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Non ci stancheremo mai di ripetere che i giornali (ma non solo) devono divulgare la lingua in modo corretto perché entrando in tutte le case sono "fruiti" anche da persone poco avvezze in fatto di lingua e queste prendono "per buono" tutto ciò che leggono. La stampa, insomma, deve diffondere le notizie corrette anche sotto il profilo linguistico e questo, purtroppo...  Il titolo su riportato, infatti, non riflette la lingua corretta. Perché? Perché si dice "posto di infermiere", non "da" infermiere. Siamo in presenza di un normalissimo complemento di specificazione. Si specifica, infatti, di "quale" posto si tratta. Vediamo, in proposito, ciò che scrive il vocabolario Treccani in rete:

[...]  6. a. Impiego, ufficio che costituisce l’occupazione abituale e da cui si traggono, tutti o in parte, i mezzi di sostentamento: essere alla ricerca di un p.; trovare un p.; offrireprocurare un p.; avere un buon p., un ottimo p., un pmiseromodestoperdereconservare il p.; ci tengo al mio p.!; seguito dalla specificazione dell’impiegomettere a concorso trecento pdi maestroè vacante il pdi segretariodi redattore capo; anche con riferimento a cariche elevate: aspirare a un ppiù altosi sono presi i pmiglioriavereoccupare un pdi grande responsabilitàessere ai pdi comando. Con sign. più astratto, la dignità e il decoro che l’ufficio o la carica conferiscono, la stabilità economica che ne viene, la stima e il credito che ne sono il riflesso: averefarsi un pnella vitanella societàda tutti i portamenti di don Gonzalopare che avesse una gran smania d’acquistarsi un pnella storia (Manzoni)[...].

Fare il negro di qualcuno

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Questo modo di dire dovrebbe essere noto a coloro che operano nel mondo dell'editoria e del giornalismo. Si chiama "negro" la persona che redige articoli che, in seguito, verranno firmati da un autore più... autorevole. Si dice anche di persona che svolge lavori molto faticosi per conto di altri.

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La parola proposta da questo portale e non "lemmata" nei vocabolari dell'uso: anemòmilo. Sostantivo maschile con il quale si indica/indicava il mulino a vento.

Darsele di santa ragione

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Pregiatissimo dott. Raso,
ero in cerca di una regola grammaticale e un caro amico mi ha segnalato il suo blog: l'ho spulciato e ho trovato la regola che cercavo. Inutile dirle che l'ho messo subito tra i preferiti. Ne approfitto per una curiosità linguistica. Perché quando due si picchiano si dice che se le danno di santa ragione? È "santa" la ragione, cioè il motivo dell'uno o dell'altro? Dov'è la "santità" nel picchiarsi? Proprio non capisco: può svelarmi questo "mistero"?
Grazie e complimenti vivissimi per il suo lodevole e istruttivo impegno.

Arturo A.

Rovereto (Trento)

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Gentile Arturo, la ringrazio per i complimenti. Può trovare la risposta alla sua domanda in un mio vecchio intervento. Clicchi qui.

"Sono" seduto o "ho" seduto? Dipende...

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Stupisce il constatare che i "sacri testi" (grammatiche e vocabolari) in nostro possesso indichino solo il verbo essere da adoperare per la coniugazione dei tempi composti del verbo "sedere". Sí, d'accordo, il verbo sedere, come buona parte dei verbi intransitivi, prende l'ausiliare essere: sonoandato; sonouscito; sono seduto. Ci sono dei casi, però - non riportati, come dicevamo, nei testi grammaticali - in cui il verbo in questione prende l'ausiliare "avere". Quando sedere vale "occupare un posto"; "svolgere una funzione"; "prendere parte"; "rivestire una carica" e simili: Tizio e Caio hanno seduto in Parlamento per due legislature; Giovanni ha seduto in presidenza fino alla quiescenza. Sedere, del resto, non è parente di "presiedere"? E questo, intransitivo, con le varie accezioni (coordinare, sovrintendere, dirigere e simili) non richiede l'ausiliare avere? Caio e Sempronio hanno presieduto ai lavori della prima riunione della commissione. Il verbo sedere coniugato con l'ausiliare "avere" si trova, peraltro, in queste pubblicazioni.

E se riscoprissimo la nostra meravigliosa lingua italiana?

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In questo sito sono elencate TRECENTO parole "barbare" che si possono perfettamente scrivere e dire in lingua italiana (gli operatori dell'informazione, per primi, ne prendano atto: conosciamo molte persone che non comprano piú i giornali perché sono stanche di essere costrette a portarsi dietro il vocabolario d'inglese per leggere un giornale... italiano). Si veda anche qui.
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