di Salvatore Claudio Sgroi
1. L'evento mediatico: direttrice d'orchestra o direttore d'orchestra?
In occasione del 71° Festival di Sanremo, Beatrice Venezi ha fatto il suo ingresso sul palco dell'Ariston come conduttrice al fianco di Fiorello e di Amadeus. Il quale avrebbe voluta presentarla come "direttrice d'orchestra", suscitando la reazione della Venezi, che ha invece messo i puntini sugli i, dicendo: "Mi devi presentare come direttore d'orchestra. Me ne assumo la responsabilità!"
Una scelta chiara a favore della rivendicazione del suo ruolo di "direttore d'orchestra", lasciando in sordina il fatto di essere donna.
Un'occasione per suscitare in rete varie reazioni a favore o contro l'uso dei titoli di professione al maschile riferiti non solo a uomini ma anche a donne.
Domenica 14 marzo nella istruttiva trasmissione "Pronto Soccorso linguistico", di RAI Uno-Mattina, ore 8.30, è stato chiesto a Francesco Sabatini la sua opinione riguardo all'uso dell'espressione direttore d'orchestra riferito a una donna. Sabatini si è mostrato decisamente contrario a tale norma, perché a suo giudizio nel "dialogo" ovvero nell'"uso appellativo" occorre dire "direttrice"riferito a una donna.
A dire il vero, il contesto d'uso di "direttrice d'orchestra" (nel caso di Amadeus) è ben diverso da quello di "direttrice" (ipotizzato da Sabatini). Nel caso di Amadeus, lui presentava agli spettatori Beatrice Venezi in quanto "direttrice d'orchestra", parlava cioè in terza persona della Venezi, e non si rivolgeva alla Venezi in forma diretta, allocutiva, ovvero in forma transazionale, per es. "*Direttrice d'orchestra, lei cosa ci farà ascoltare ora?", o anche in forma più confidenziale "*Direttrice d'orchestra, tu cosa ci farai ascoltare ora?". Espressioni entrambe invero assai innaturali per un italofono.
La posizione di Sabatini, oltre a rivelarsi prescrittivista, avalla implicitamente la teoria del "sessismo linguistico" quanto all'uso dei titoli professionali. Ovvero il maschile, in quest'ottica, spadroneggerebbe nella lingua italiana (e non solo) ai danni del genere femminile, come se il genere grammaticale dei nomi avesse la funzione principale di indicare il sesso (maschile= maschio, uomo; e femminile = femmina, donna). Il che invero non è, in quanto il genere grammaticale ha la funzione principale di creare la coesione morfo-sintattica attraverso l'accordo (il direttore è uscito; la direttrice è uscita; i direttori [uomini e donne] sono usciti). Il genere grammaticale secondariamente, e solo nei nomi animati (umani e non-umani), può anche indicare il sesso. Nei nomi di professione come direttrice, magistrata, ecc. o di cariche pubbliche come sindaca, ministra, ecc. coesistono allora due diversi valori: a) 'la professione, il ruolo di dirigere qc/qn' e b) 'il sesso di chi, donna, dirige qc/qn'. A questo punto è il parlante che decide legittimamente come farsi chiamare, se direttoreo direttrice. Beatrice Venezi vuole che di lei si parli come di direttore d'orchestra e che con lei si parli allocutivamente come "direttore" (sottolineando quindi il ruolo e non il sesso). E credo che si debba rispettare questa scelta e non essere prescrittivisti.
3. Il "duetto" discordante V. Della Valle - G. Patota
La stessa domenica 14 marzo su RAI 3, ore 10.20, nella trasmissione "Le parole per dirlo", dedicato alla canzone, il "duetto" Valeria Della Valle - Geppi Patota non ha potuto sottrarsi a un commento sull'evento sanremese. Ma questa volta non "all'unisono". La Della Valle -- laicamente e non prescrittivamente -- ha sostenuto che non è loro compito indicare se occorre dire il direttore o la direttrice con riferimento a una donna, in quanto è il parlante che ha la libertà di dire direttore o direttrice. Per Geppi Patota invece è stata una occasione "mancata" il non usare direttrice.
L'accademico Rosario Coluccia, autore del recente (neopuristico) Conosciamo l'italiano? Usi, abusi e dubbi della lingua italiana (Accademia della Crusca 2020) dedica le pp. 81-86 al genere dei nomi (sindaco/a, architetto/a, rettore/rettrice, chirurgo/a,arbitro/a, ecc.). Da un lato, egli ricorda che Laura Giuliani, calciatrice molto nota, ha dichiarato più volte di voler essere definita portiere e non portiera" (p. 82), rifiutando "la declinazione al femminile del ruolo che ricopre all'interno della squadra" (ibid.). D'altro, sul versante opposto ricorda anche che "Rivendicando la propria identità [sessuale], giustamente, Milena Bortolini, che guida la nazionale femminile di calcio, ha chiesto di essere definita non mister, ma miss" (p. 85). Solo in questo secondo caso, però, per Coluccia, si "us[a] la lingua in modo adeguato" (p. 86). Per il nostro accademico "Chi sceglie anche per l'italiano le forme femminili per le professioni di cui parliamo adopera con efficacia le risorse flessive a disposizione della nostra lingua" (ibid.). "Oggi, con una società diversa, possono essere declinati al femminile nomi finora pensati e usati al maschile, -- insiste Coluccia -- seguendo le regole della nostra grammatica, senza alcuna violazione della norma".
Senza negare la legittimità della preferenza da parte di Coluccia per la femminilizzazione dei nomi in questione, tale posizione è per me condivisibile, solo se non diventa prescrittivista, nel senso che bisognerebbe dire la sindacaecc.. Per me invece il parlante dev'essere libero di usare il maschile (a sottolineare il ruolo e la funzione) oppure il femminile (a insistere anche sull'identità sessuale), in entrambi i casi "in modo adeguato" e "con efficacia" e "senz'alcuna violazione delle regole grammaticali", senza dimenticare contrariamente a Coluccia la funzione di coesione morfo-sintattica prioritaria del genere grammaticale.
Claudio Marazzini nel suo L'italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua (Rizzoli 2018) dedica pagine ricche di esempi e di episodi legati alle polemiche sulla femminilizzazione dei termini in oggetto ("Lingua, genere, sesso" pp. 200-17). E non dimentica di ricordare che "la questione del genere grammaticale non è legata di per sé alla sola questione del sesso, ma è parte di un meccanismo di funzionamento della lingua in quanto struttura, per assicurare le concordanze e garantire la comprensibilità del testo" (p. 208).
Dinanzi alla presenza di forme quali il ministro s.m. referenzialmente "promiscuo" indicante cioè un uomo o una donna e la ministra s.f., nome "mobile", con referente donna, da un lato si "rassegn[a] all'oscillazione tra maschile non marcato e femminile, fino a quando non ci sarà il netto prevalere di una forma sull'altra" (p. 212).
Dall'altro propone una logicistica, salomonica soluzione: "Buona soluzione mi pare quella di adottare il femminile quando abbiamo il nome (La presidente Boldrini, La ministra Boschi), il maschile non marcato quando la carica è menzionata di per sé in atti ufficiali ('La circolare del ministro, Il ministro decreta, maschio o femmina che sia)" (ibid.).
6. Cecilia Robustelli: femminista, ideologa, perentoria e prescrittivista
Nell'intervista di Francesco Lepore (in "linkiesta" 9 ottobre 2020), Cecilia Robustelli da un lato ricorda che "il genere grammaticale ha una funzione coesiva all’interno del discorso, cioè costruisce, inanella, fa riferimenti. Se manca il genere grammaticale, le parole galleggiano in un testo e, dunque, lo rendono incomprensibile". Ovvero che "il genere grammaticale" serve "per accordare fra loro nomi, aggettivi, pronomi, participi", e che quindi è "uno strumento di coesione all’interno di un testo". Ma poi di fatto dimentica del tutto tale proprietà strutturale del genere.
Dinanzi all'osservazione dell'intervistatore che "A opporsi molte volte all’uso di tali parole [come avvocata, medica, ingegnera] sono donne che ricoprono ruoli istituzionali. Si pensi, ad esempio, a Elisabetta Alberti Casellati, che vuole essere chiamata“il presidente del Senato”. Sbaglia secondo lei?", la Robustelli avanza infatti nella sua risposta argomentazioni aprioristiche per sostenere un rigido prescrittivismo.
"Noi usiamo la lingua italiana e questa, che ci piaccia o no, usa il genere grammaticale maschile per i maschi, il genere grammaticale femminile per le donne", sostiene.
Ma quest'affermazione è contraddetta dalla presenza dei nomi "non animati" in cui il genere grammaticale non ha alcun riferimento sessuale. La lunaè forse femminile perché 'donna' e il soleè maschile perché 'maschio'? E con riferimento agli stessi "nomi animati", la non-corrispondenza tra genere grammaticale e sesso non è certamente priva di significato, la guardia, la sentinella, la recluta, la spia, la star ecc.è sia 'uomo' che 'donna'; la balena, il vermeecc. è sia 'maschio' che 'femmina'.
L'A. avanza poi una presunta "confusione"derivante dall'uso del genere maschile riferito alle donne, quando così continua:
"Perché, altrimenti, non ci si capisce. Quindi, se tu sei una donna, devi accettare (anzi, dovresti chiedere!) che nei tuoi confronti si usi il genere femminile. Altrimenti non vieni identificata, si fa confusione. A maggior ragione, quando la comunicazione si svolge su piani istituzionali, la confusione non è permessa. Il linguaggio istituzionale è una varietà della lingua italiana, che ha tra le sue caratteristiche primarie la totale trasparenza".
Il punto, delicato, volutamenteignorato dalla Robustelli,è invece che la scelta del termine al maschile "il presidente" sottolinea il 'ruolo' della donna e non l'essere una persona di sesso femminile.
La Robustelli trae quindi la conclusione:
"Per cui, la presidente Casellati dev’essere chiamata così: se le piace o non le piace, ha poco rilievo. La comunicazione si serve di un codice lingua condiviso, altrimenti la comunicazione non passa si vedano i saggi di Jacobson, 1966".
Ora, a parte lo sfoggio accademico del rinvio a R. Jakobson 1966 per il "codice condiviso", la posizione della Robustelli in quanto femminista, ideologa, perentoria, prescrittivista, che non tiene minimamente conto della volontà del parlante, è difficilmente condivisibile.
Quanto a me, condivido invece, la posizione -- laica -- del Parlamento europeo (2008) che, come ricordava la stessa Robustelli in Sindaco e sindaca: il linguaggio di genere (Accademia della Crusca-la Repubblica 2016), peraltro dissentendo, “lasciava libertà alle persone che rivestivano ruoli istituzionali, se donne, di scegliere il titolo maschile o femminile” (p. 119).
Sommario
1. L'evento mediatico: direttrice d'orchestra o direttore d'orchestra?
2. Francesco Sabatini: il femminile, un uso "appellativo"?
2.1. Genere grammaticale e sessismo linguistico
3. Il "duetto" discordante V. Della Valle - G. Patota
4. L'accademico Rosario Coluccia: solo la femminilizzazione è "adeguata" ed "efficace"
5. Il logicismo salomonico del presidente dell'Accademia della Crusca, Claudio Marazzini
6. Cecilia Robustelli: femminista, ideologa, perentoria e prescrittivista
7. Scelta -- laica -- del Parlamento europeo